La civiltà romana è stata la prima ad usare il cemento su larga scala. Acquedotti, strade, ponti e molti edifici dell’antica Roma sono costruiti in cementizio, un materiale duttile e resistente. Tanto resistente che molte opere cementizie costruite in quell’epoca sono ancora in piedi, a differenza di quelle che utilizzano il cemento moderno.
Qual è il motivo di queste elevate durabilità e resistenza? Secondo un recente studio del MIT, condotto da Admir Masic e dal suo team di ricerca, il segreto sta nella capacità auto-generativa del calcestruzzo romano.
«Studio il calcestruzzo romano da almeno cinque anni, chiedendomi come mai strutture magnifiche come il Pantheon, il Colosseo, ma anche porti, acquedotti, ponti e terme siano sopravvissuti fino ai tempi moderni».
Lo studio del MIT sul calcestruzzo romano
La ricerca di Admir Masic è stata condotta su campioni prelevati dal sito archeologico di Privernum, vicino Roma. Analizzando la composizione chimica dei campioni, il team di ricerca ha ricostruito la preparazione della miscela utilizzata dagli antichi romani. La conclusione a cui si è giunti è che il calcestruzzo romano veniva prodotto a partire da calce viva, cotta nei forni ad alte temperature.
Nella miscela è stata infatti rilevata la presenza di clasti di calce. La calce è un legante costituito da ossido di calcio usato per la realizzazione di malte; il clasto è un elemento litoide derivato dalla disgregazione di rocce preesistenti. In passato si credeva che i clasti di calce fossero residui di miscelazioni approssimative o di materie prime di scarsa qualità. Lo studio del MIT ha invece determinato che si tratta di inclusioni di carbonato di calcio che si sono formate a temperature estreme: questa fonte di calcio risulta facilmente fratturabile e reattiva, con funzionalità di autoriparazione.
«Quando il calcestruzzo dei nostri giorni si frattura, al suo interno entrano acqua o umidità e la crepa va allargandosi, indebolendo l’intera struttura. Con la miscela dei romani invece, la fessura si autoripara. Come? I granelli di calce che si sono formati quando fu prodotto il calcestruzzo si sciolgono con l’infiltrazione di acqua: in questo modo forniscono gli ioni di calcio (ossia atomi senza elettroni) che, ricristallizzando, riparano le crepe».
La sperimentazione e il confronto con il calcestruzzo moderno
I ricercatori del MIT hanno sperimentato la tecnica di preparazione del calcestruzzo creando un campione da mettere alla prova. Una volta pronto, il provino è stato rotto meccanicamente e quindi riavvicinato a una distanza variabile tra 0,5 mm e 0,1 mm. Si è poi misurata la quantità di acqua passante durante un certo tempo di osservazione. Il calcestruzzo ordinario è stato sottoposto allo stesso test.
Il risultato del confronto mostra come la percentuale di acqua passante il provino “romano” si avvicini a 0 dopo circa 30 giorni di osservazione, a differenza di quello contemporaneo che mostra valori ben più alti. Guardando nel dettaglio, si osserva la formazione di un nuovo materiale nel campione romano, a riempimento della fessura, generato dalla reazione chimica dei granuli di calce con l’acqua passante. Il nuovo materiale formatosi viene identificato come calcite.
Il calcestruzzo romano è effettivamente in grado di auto ripararsi; va però puntualizzato che le lesioni in grado di “guarire” sono relativamente piccole in ampiezza, nell’ordine dei decimi di millimetro.
Ispirarsi al calcestruzzo romano per produrre nuovi materiali edili
Lo studio del MIT potrebbe essere il punto di partenza per nuovi sviluppi sulla preparazione del calcestruzzo. Migliorare le tecniche di preparazione della miscela per ottenere un materiale in grado di ripararsi può aumentare la vita utile delle nuove costruzioni. Maggiore vita utile vuol dire minore impegno in ricostruzione e riparazione. Significa anche ridurre l’inquinamento ambientale legato alla produzione di nuovi prodotti (la produzione di cemento rappresenta circa l’8% delle emissioni globali di CO2).
Fonti: Geopop.it, Focus.it, DDay.it, Science.org, Open.online, Today.it