“..Perchè da un lato si assiste ad interventi i cui esiti sono sicuramente più corrispondenti alla cultura, le metodologie sono più rigorose e l’operatività è più elevata, mentre dall’altro lato, esiste quasi un’anarchia di atteggiamenti e una totale soggettività delle interpretazioni e delle risposte progettuali?..”
Negli interventi di qualità sugli edifici storici la fase tecnica di conservazione dei materiali sembra oggi raggiungere un livello più elevato rispetto a quella del riuso e adeguamento degli spazi.
La pulitura delle superfici lapidee, la riadesione degli intonaci, la correzione statica di strutture dissestate, sono operazioni che possono essere affrontate in sede di progetto e di cantiere da un vasto numero di operatori con un metodo rigoroso e omogeneo. In questi casi si deve seguire un percorso, si devono utilizzare procedure, si devono impiegare materiali e tecniche che la cultura del settore ha ormai riconosciuto come validi perchè verificati dalla scienza e approvati dagli organi di tutela.
Nell’infinita diatriba che riguarda da un lato, chi sostiene che l’intevento tecnico di restauro e conservazione sia più “facile” dell’intervento di riuso, e dall’altro chi sostiene il contrario, si può certamente convenire sulla completezza e complessità che la conservazione esige, necessitando, infatti, di una maggiore specializzazione, maggiore padronanza degli studi interdisciplinari, che non si arrestano al problema tecnico ma coinvolgono moltissime discipline affini (chimica, fisica, scienza delle costruzioni, ecc.), inoltre l’impossibilità di manualizzare la fase tecnica, perchè troppo problematica e varia, rende questa disciplina ancora più complessa.
Approfondendo il rapporto riuso/conservazione ed interrogandosi sul loro livello di qualità sorgono alcune domande: perchè da un lato si assiste ad alcuni interventi i cui esiti sono sicuramente più corrispondenti alla cultura, le metodologie sono più rigorose e l’operatività è più elevata, mentre dall’altro lato, nel riuso, esiste quasi un’anarchia di atteggiamenti e una totale soggettività delle interpretazioni e delle risposte progettuali? Perchè, quando si devono inserire nuove funzioni, nuove dotazioni tecnologiche, o quando si interviene negli spazi e nei volumi della fabbrica gli interventi non sono mai riconducibili ad una metodologia costante o ad un atteggiamento culturalmente omogeneo?
Le risposte certamente non sono semplici, ma qualche riflessione si può certamente avanzare alla luce dei dibattiti più generali del settore. Innanzitutto, il riuso delle architetture del passato viene oggi quasi sempre concepito nell’ambito di una cultura progettuale che nasce dalla composizione architettonica del nuovo; questa fonda sulla creatività dell’architetto, sulla fantasia e sull’estro, tutti elementi che non possono essere imbrigliati dall’edificio esistente. Trasferendo questo metodo al progetto sul patrimonio esistente si assiste ad una totale prevaricazione del progettista compositivo sul dato fisico della fabbrica storica tanto da essere trasformata per esprimere la propria soggettività creativa.
Ancora, nel riuso inteso in termini compositivi, si giustifica la libertà progettuale in quanto i monumenti hanno subito storicamente continue modificazioni e adattamenti, pertanto anche i progettisti, oggi, sono legittimati a lasciare il proprio segno, quasi come in una missione, a ri-scrivere la storia. In questa volontà di confrontarsi con gli spazio storici, con le forme del passato, pare realizzarsi una competizione tra passato e presente, dove il primo diventa sfondo per la celebrazione del secondo. E tale atteggiamento diventa metodo.
Questi sono i grandi equivoci del riuso: si affronta il progetto con la mentalità creativa, con quella cultura progettuale che nasce dalla produzione del nuovo, che tra l’altro, ha raggiunto livelli straordinari. Questo concetto del riuso è ideologicamente contrario ad una progettualità diversa, subordinata all’esistente, più rispettosa, attenta al costruito e non prevaricante su esso. Ne consegue che il riuso è sempre più distante da una coerenza con l’intervento tecnico di conservazione.
Oggi, non è più accettabile che i professionisti, i restauratori, gli artigiani e le imprese che operano nel riuso, intervengano in modo soggettivo senza avere alcun riferimento normativo che ne analizzi ed uniformi il tipo di intervento.
In conclusione, un monumento che deve potersi ri-usare, deve innanzitutto potersi conservare, ma per giungere a questo fine bisogna che cambi l’atteggiamento soggettivo ed autocelebrativo dei progettisti a favore di un maggior rispetto del monumento storico che deve poter continuare a trasmettere il proprio linguaggio dal passato al presente.