Marina Bay Sands
Nel cuore di Singapore, all’interno dell’omonima baia, è nato il Marina Bay Sands, il più grande resort asiatico che copre una superficie di 12.400 mq. Questa opera d’ingegneria è al top della lista dei resort più esclusivi del pianeta e dispone di una piscina a sfioro con vista sullo skyline di Singapore e sulla baia di Marina. La piscina Arena Skypark è una impressionante meraviglia di architettura e ingegneria rivestita con più di 4.000 mq di Metal Titanium natural collocato all’interno ed all’esterno.
Il marina Bay Sands conta su tre hotel di 50 piani alti circa 200 metri uniti nella loro parte superiore da un Giardino Botanico panoramico nel quale si può passeggiare fra 250 tipi di alberi e 650 specie di piante. Una costruzione che ha cambiato completamente l’immagine di Singapore e il modo di fare turismo: può ospitare fino a 3.900 persone che desiderano avere una delle viste più esclusive della città. Oltre ai numeri, la cosa più caratterizzante del Marina Bay Sands è la sua architettura innovativa, opera dell’architetto israeliano Moshe Safdie. Nella sua morfologia architettonica, il Marina Bay Sands assume nella cima delle sue tre torri una curiosa forma di barca che mette in risalto l’imponente progetto nel quale l’architetto ha inserito un fiume interno navigabile, un centro congressi, una vistosa piazza, un padiglione in cristallo e un museo a forma di fior di loto.
Fotovoltaico che si spalma
Celle fotovoltaiche piegabili, arrotolabili o spalmabili sulle pareti come vernice? Non è fantasia, anzi è una realtà che entrerà nel mercato nel giro di qualche anno – o magari prima, vista l’attuale fame di rinnovabili – e che si tradurrà, fra le altre cose, in pannelli flessibili, removibili, adattabili alle superfici curve o ai tessuti, in altri colorati per integrarsi nelle pareti, in pellicole fotovoltaiche con cui ricoprire gli edifici. Studio interessante considerando che uno dei problemi legato all’impiego di pannelli fotovoltaici è quello estetico. Immaginare un borgo medievale ricoperto da celle fotovoltaiche non è facile, oltre che talvolta ostacolato da vincoli ambientali. I ricercatori statunitensi della Notre Dame University hanno messo a punto una vernice capace di trasformare la luce in energia. Si tratta di una miscela di materiali polimerici e di particelle di biossido di titanio rivestite con solfuro e seleniuro di cadmio sospesa in una soluzione idroalcolica per creare una pasta. Ricoprendo con questa pasta un buon conduttore ed esponendo il tutto alla luce, si può generare elettricità, basterà sostituire la comune vernice con la Sun-believable per evitare l’istallazione di antiestetici pannelli solari. L’impiego di vernici “intelligenti” potrebbe rispondere alle continue perplessità che nascono dal selvaggio impiego dei campi fotovoltaici, che deturpano il paesaggio, potrebbe finalmente sradicare la concezione secondo la quale l’utilizzo di energie alternative debba essere una scelta antiestetica, potrebbe portare ad un abbattimento dei costi per l’assenza di silicio e può senza dubbio risolvere il problema legato allo smaltimento dei pannelli fotovoltaici. La scoperta è nella sua fase iniziale e per questo del tutto sperimentale. L’obiettivo dei ricercatori è l’abbattimento dei costi di produzione e il miglioramento dell’efficienza ottenuta fin’ora. Al momento infatti la capacità energetica della vernice è dieci volte minore rispetto ai pannelli al silicio.
A mandare in pensione il silicio contribuirà il nuovo Center for Nano Science and Technology of IIT@PoliMi, un’unità di ricerca all’avanguardia, appena inaugurata a Milano grazie alla partnership strategica fra il Politecnico e l’ Istituto italiano di tecnologia. Energia e smart materials, con particolare attenzione al fotovoltaico di terza generazione, sono i due grandi campi su cui si concentreranno gli sforzi dei 53 ricercatori previsti nel Centro (a oggi ne sono già arrivati 39, provenienti da otto paesi diversi).
Diga di Hoover
La diga di Hoover, realizzata in calcestruzzo armato e situata nel Black Canyon del fiume Colorado, esattamente sul confine tra lo stato dell’Arizona e quello del Nevada, negli Stati Uniti fu iniziata nel 1931 e completata nel 1935. Fu costruita per fornire canali d’acqua per l’irrigazione, facilitare il controllo delle piene e produrre energia idroelettrica. Questo capolavoro vanta misure di tutto rispetto: per la sua realizzazione furono impiegati 3.400.000 m3 di calcestruzzo, che consentirono di realizzare una struttura alta 221 m e lunga 201 m alla base. Al momento del suo completamento era il più grande impianto di produzione di energia idroelettrica e anche la più grande struttura in calcestruzzo degli Stati Uniti. Una triste curiosità è che durante la sua costruzione vi furono complessivamente 112 vittime accertate. In questo conto rientra anche la morte di J. G. Tierney che affogò il 20 dicembre 1922 nel fiume Colorado mentre ispezionava un potenziale sito per la costruzione della diga. Tierney è pertanto ritenuto essere la prima vittima durante la costruzione della struttura e, ironia della sorte, suo figlio Patrick W. Tierney fu invece l’ultima, esattamente 13 anni dopo, il 20 dicembre 1935. Nonostante sia considerata tra le 10 meraviglie dell’Architettura Moderna mondiale, la diga di Hoover non è stata concepita per integrarsi armonicamente con il paesaggio circostante. Ecco perché il promettente architetto Yheu-Shen Chua, dall’Inghilterra, ha pensato di ricostruirla ispirandosi alla forma della roccia vicina modellata dall’erosione. L’acqua del fiume sarà incanalata nella struttura e convogliata in un grande acquario da utilizzare come attrazione per i visitatori.