In Europa, il 54% dei materiali di scarto della demolizione finisce ancora in discarica: occorre mettere in atto un piano di recupero.
Del totale di rifiuti prodotti ogni anno nel nostro continente, pari a circa 500 milioni di tonnellate, oltre un terzo viene generato dalle operazioni di costruzione e demolizione. Si tratta dei settori che realizzano i maggiori volumi e si conta che ogni anno gli scarti ammontino a una tonnellata pro capite.
I materiali dismessi sono di vario tipo e comprendono mattoni, conglomerati cementizi o bituminosi, legno, frammenti di sovrastrutture stradali e ferroviarie, plastica, intonaci e manufatti in calcestruzzo.
Considerata la durata particolarmente lunga di edifici e impianti, si rende necessario passare all’azione e progettare meglio, riducendo l’impatto ambientale di queste strutture e migliorando la riciclabilità dei loro componenti.
Un’indagine condotta dalla Ellen MacArthur Foundation nel 2015 ha dichiarato che la popolazione mondiale crescerà fino a 9,7 miliardi per il 2050. Ciò si tradurrà di conseguenza in un rischioso aumento del consumo globale.
Continuando con i ritmi attuali, infatti, entro quella stessa data, la produzione annuale di rifiuti sarà pari al +70% e a pagarne le spese saranno il cambiamento climatico, l’inquinamento e l’uso del suolo.
Imparare a gestire responsabilmente questi scarti è cruciale sia per l’ambiente che per la collettività, intesa in termini di salute e spese per smaltimenti e bonifiche.
Si stima, infatti, che senza un intervento decisivo, il livello di consumo mondiale potrebbe arrivare a richiedere le risorse di 3 pianeti Terra.
Già con la Direttiva 2008/98/CE, l’Unione Europea si era prefissata di raggiungere entro il 2020 un tasso di recupero dei rifiuti da costruzione e demolizione equivalente ad almeno il 70% in tutti gli Stati Membri. A giudicare dalle statistiche ufficiali, l’impresa sembra andata a buon fine.
L’obiettivo principale in termini di sviluppo sostenibile, adesso, consiste nella transizione verso un’economia circolare che possa permettere l’attuazione dei 17 punti esposti dall’Unione Europea nell’Agenda 2030.
Per quanto riguarda l’Italia, lo strumento a cui far riferimento è la Strategia Nazionale di Sviluppo Sostenibile 2017-2030. Questa, tra gli altri traguardi da raggiungere, incoraggia la creazione di un nuovo modello economico circolare a basse emissioni di CO2.
Recentemente, anche Legambiente ha individuato interventi, progetti e riforme trasversali necessarie per accelerare la transizione ecologica del nostro Paese, così che possa diventare più sostenibile e appianare le differenze Nord-Sud.
In generale, l’economia circolare può essere definita come un sistema economico capace di auto-rigenerarsi e garantire l’ecosostenibilità tra i materiali biologici, che possono essere reimmessi nella biosfera, e quelli tecnici, in grado di venire rivalorizzati – evitando l’impiego di risorse vergini.
Questo principio dà origine al concetto di edilizia circolare, per cui i rifiuti si trasformano in risorse e gli scarti vengono ridotti al minimo. Dal momento che i beni a nostra disposizione sono limitati, occorre impiegarli in maniera più equa per far sì che anche le generazioni future ne abbiano accesso.
Dalla progettazione alla produzione, e poi dalla distribuzione all’utilizzo, tutto ciò che viene dismesso dovrebbe poter essere riciclato e dare vita a una nuova progettazione successiva.