Il nostro viaggio alla scoperta di incompiute ed ecomostri in Sicilia, fa tappa di nuovo a Catania, per raccontare la storia del “palazzo di cemento”, un edificio che è il simbolo del degrado di un intero quartiere: Librino.
La sua progettazione risale agli anni Sessanta. Il Comune di Catania la affidò al giapponese Kenzo Tange, che immaginò un villaggio a misura d’uomo, in un perfetto equilibrio tra natura e paesaggio, in cui accanto alle abitazioni che avrebbero dovuto accogliere circa 60.000 abitanti, si sarebbe dovuto realizzare un auditorium, numerose aree verdi, un centro sportivo, una biblioteca e perfino l’università. Un progetto che, però, si dimostrò subito irrealizzabile perché la stessa collina sulla quale stava progettando Tange, era già stata colonizzata da palazzi abusivi, che furono sanati dall’amministrazione comunale, decretando la fine dell’idea dell’architetto e urbanista giapponese e la condanna di Librino a quartiere dormitorio, l’ennesimo, alla periferia della città.
Il quartiere, nel corso del tempo è divenuto tristemente simbolo di criminalità che raggiunge il proprio apice proprio nel “Palazzo di Cemento”, vero e proprio covo della criminalità organizzata, covo per lo spaccio di droga, traffico illegale di armi, ricettazione.
La storia dell’edificio comincia nel 1981, quando l’impresa di costruzioni del cavaliere del lavoro Finocchiaro vince l’appalto per la sua realizzazione e affida i lavori di progettazione ai noti architetti Giuseppe Samonà e Giacomo Leone. Il progetto di destinazione d’uso dei vari ambienti, secondo lo studio dell’ingegnere Alessia Denise Ferrara pubblicato nel volume “Dei paesaggi di Ellenia e di altre storie simili” a cura di Filippo Gravagno prevedeva i primi due piani per attività commerciali, il piano ammezzato e il primo piano per uffici, mentre i restanti dodici piani superiori per alloggi da assegnare con graduatoria pubblica.
Per ragioni poco note i lavori vengono interrotti nel 1984, quando il palazzo è quasi completo. In quell’anno il cavaliere Finocchiaro è rinviato a giudizio per vari scandali legati alla concessione di appalti. Nel 1986 una nuova gara d’appalto per il completamento dell’edificio viene vinta dalla “Structura Costruzioni S.a.s.” di Agrigento. Ma c’è un problema formale di vitale importanza per la storia del “Palazzo di cemento”: nel maggio del 1987 entra in vigore una nuova normativa antincendio, secondo cui l’edificio non è a norma. I Vigili del fuoco negano il “certificato di prevenzione incendi” perché si devono eseguire dei costosi lavori di adeguamento dei comparti delle scale antincendio.
La consegna dell’edificio non avverà mai. Nel 1992, però, il palazzo viene occupato abusivamente da una quarantina di famiglie. L’ingegnere Francesco Lo Giudice, direttore dei lavori in quanto titolare della S.T.A. progetti, scrive a Enel, Sip, Azienda Acquedotto Municipale, al Prefetto, al sindaco Luigi Giusso, alla Direzione del XVII Settore LL.PP. e SS.TT e per conoscenza al comando prov. dei Vigili del fuoco e alla Structura Costruzioni, spiegando che l’edificio è privo per varie ragioni di certificato di abilità e chiedendo di rifiutare qualsiasi istanza di allacciamento di utenza perché non si è proceduto all’assegnazione degli alloggi e quindi gli occupati non ne hanno nè diritto, nè titolo. Nonostante la nota, in molti otterranno le utenze di luce e acqua.
Nel maggio 2011 le quaranta famiglie verranno sgomberate, ma a quest’azione non farà seguito un piano di recupero dell’edificio, che rimane la fotografia dello scempio e del degrado a cui è abbandonato tutto il quartiere: regno della criminalità organizzata e spazio dormitorio senza alcuno spazio per la socialità.
Foto credit: Kelina
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