La tragedia del Vajont, una catastrofe che poteva essere evitata

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Il lago del Vajont, con il segno dello scivolamento della frana del 1960. Si nota la
Foto via Wikimedia Commons

Poco più di 60 anni fa sulle Dolomiti ebbe luogo uno dei disastri più gravi nella storia d’Italia, risultato di fattori geologici, ingegneristici e decisionali

La sera del 9 ottobre 1963, alle 22:39, una frana del monte Toc precipitò nella diga artificiale del Vajont tra Veneto e Friuli-Venezia Giulia. L’impianto restò in piedi, ma la massa di terra caduta nel lago, pari a 270 milioni di metri cubi di roccia, provocò due onde alte più di 250 metri. La prima raggiunse le località di Casso ed Erto, risparmiandole per pochissimo. La seconda scavalcò gli argini della diga e in 4 minuti investì la cittadina di Longarone, spazzandola via. Altri paesi furono coinvolti, come Codissago e Castellavazzo. Il bilancio delle vittime fu di 1.910 persone, tra cui centinaia di bambini.

Ciò che venne fuori con le indagini fu che la SADE (Società Adriatica Di Elettricità, responsabile dei lavori) aveva occultato le analisi che dimostravano l’incompatibilità dell’area al progetto. La Valle del Vajont era fragile e ad elevato rischio sismico. Non poteva prestarsi ad ospitare una mega struttura come la diga che venne realizzata, ma erano gli anni del boom economico e c’era bisogno di approvvigionare le città del Triveneto di energia elettrica: sfruttare la potenza idraulica del fiume Vajont era visto come una necessità e il bacino idroelettrico fu realizzato.

Indice

La costruzione e la prima frana

Il Vajont è un affluente del Piave e scorre in una gola scavata tra i monti Toc e Salta. Sulle pendici del monte Salta sorgono i comuni di Erto e Casso, mentre all’incontro della gola con la valle del Piave, in provincia di Belluno, sorge la città di Longarone (ricostruita dopo il disastro).

La prima volta che si parlò della diga del Vajont era il 1929, ma il progetto venne approvato solo nel 1943 e i cantieri avviati nel gennaio 1957. Per soddisfare la domanda di energia elettrica, la SADE decise di ampliare il piano originale e la diga, su progetto dell’ingegnere Carlo Semenza, fu salutata come la più grande in Europa: alta 266 metri, situata a circa 723 metri s.l.m, capace di contenere 115 milioni di metri cubi di acqua.

Durante la costruzione, a pochi chilometri di distanza dal bacino del Vajont, una frana precipitò in un altro bacino progettato da Semenza, la diga di Pontesei. Gli appelli dei cittadini di Erto e Casso, allarmarti dall’accaduto, rimasero inascoltati. Non vennero presi in considerazione nemmeno dopo il completamento dell’opera, nel 1959, quando continuarono a sostenere di udire strani rumori provenienti dalle montagne.

Diga del Vajont oggi
Foto via Canva

La seconda frana e gli studi successivi

Il 4 novembre 1960 un nuovo evento franoso, più contenuto di quello di Pontesei, colpì il bacino del Vajont e provocò un’onda di 2 metri. Non ci furono danni o vittime perché l’acqua non superò la diga, ma l’evento non sfuggì alla giornalista de L’Unità Tina Merlin, che documentò la frana scrivendo che “per puro caso non c’è stata qualche tragedia”.

Da allora Semenza iniziò ad interpellare geologi, geofisici e ingegneri per valutare il progetto. Tra questi Leopold Muller, ritenuto uno dei maggiori esperti di geomeccanica, che arrivò a sostenere che la velocità della frana poteva essere “comandata” dalla quantità di acqua che era presente nel lago artificiale della diga. Più acqua c’era, più la frana si muoveva velocemente: in questo modo sembrava possibile far scivolare l’evento franoso a poco a poco ed evitare un unico crollo improvviso che avrebbe causato danni maggiori. Col senno di poi, non si rivelò una strategia adeguata.

Cosa rimane oggi

Tutte le relazioni tecniche stilate dopo la tragedia del 9 ottobre 1963 dimostrarono che la catastrofe del Vajont era prevedibile e quindi evitabile. Alla fine del processo, che si svolse dal 1968 al 1972, furono condannati Alberico Biadene, un dirigente della SADE, e Francesco Sensidoni, ispettore del Genio Civile. Solo Biadene scontò il carcere. La SADE, invece, fu inglobata da ENEL e Montedison, condannate a risarcire i danni nel 1997.

Ciò di cui abbiamo consapevolezza adesso è che le cause che portarono al disastro del Vajont furono molteplici, naturali e umane. Gli abbondanti rovesci che si erano abbattuti sulla zona in quel periodo accelerarono la frana sul versante settentrionale del monte Toc. In più, due mesi prima della catastrofe, le acque nel bacino artificiale avevano superato il limite di sicurezza fissato a 700 metri s.l.d.m. per volere di SADE in fase di collaudo dell’impianto.

Nella gestione della diga furono compiuti anche numerosi errori di analisi e valutazione del rischio idrogeologico. Certamente le conoscenze del 1963 non erano le stesse che possediamo oggi, ma tragedie come queste ci insegnano a non abbassare mai la guardia e, soprattutto, a fare nostra una strategia di prevenzione capillare sul territorio.

A questo proposito è bene ricordare che, nel 2023, l’International Union of Geological Sciences ha inserito la frana del monte Toc tra i cento geositi più rappresentativi del nostro pianeta. Ciò conferma il significato che il Vajont ha nell’immaginario collettivo. Come ha dichiarato il presidente della Fondazione Vajont Roberto Padrin, infatti, è bene che “la memoria deve andare di pari passo con la diffusione della conoscenza di cosa è stato il Vajont”.

Oggi quello che ci resta della tragedia del Vajont sono la diga, rimasta intatta dopo l’evento franoso, e alcune pagine di cronaca storica tra le più significative del nostro Paese. Come quella di Dino Buzzati, che all’alba del disastro scrisse: “Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri e il sasso era grande come una montagna e di sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi”.

Fonti:

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