Francesco Nicita, 44 anni, architetto, vive e lavora a Ragusa. Ha studiato però a Palermo, presso la Facoltà di architettura. Ha partecipato a numerosi workshop di progettazione architettonica ed urbana in Italia e all’estero, sia da studente, che dopo aver conseguito la laurea.
Durante e dopo gli studi ha anche collaborato, come cultore della materia, alle attività didattiche di alcuni corsi di composizione architettornica tenuti presso la Facoltà di Architettura dell’Università di Palermo. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti e premi: nel 1998 è il vincitore del Concorso Europan 5 “I nuovi paesaggi residenziali, spostamenti e prossimità”, area Antico Corso, Catania; nel 1999 riceve la menzione nel Concorso di progettazione per il riordino degli spazi viari antistanti il Palazzo Comunale e la Chiesa di S. Bartolomeo e la riqualificazione edilizia dei sistemi urbani prospicienti piazza Umberto e piazza del Popolo a Floridia (SR); nel 2006 riceve la menzione d’onore nel concorso d’idee per la trasformazione dell’area su cui sorge l’edificio delle Poste e la riqualificazione dello stesso a Modica (RG); nel 2012 è segnalato per il Premio “Architettura Oggi” di Ragusa; e nel 2014 riceve la menzione speciale per Premio InArch/ANCE Sicilia, Catania.
Qual è il rapporto tra la tua terra, la Sicilia, e la tua professione di architetto?
La Sicilia è il posto in cui ho scelto di rimanere dopo gli studi, il luogo dove vivo e lavoro e dove ritorno sempre con piacere dopo un viaggio. Ricordo l’entusiasmo con il quale, alla fine degli anni ’90, leggevo i testi di Kenneth Frampton sul regionalismo critico e sulla possibilità di fare buona architettura anche in una condizione periferica. A distanza di anni non ho perso quell’entusiasmo ed intendo preservarlo convinto che anche in provincia si possa praticare della buona architettura.
Quale progetto ha rappresentato, ad oggi, la sfida più ardua?
Sarebbe banale se rispondessi il prossimo, ma di una cosa sono certo: i progetti più piccoli si rivelano spesso i più difficili.
La progettazione è per te un momento di creatività individuale o piuttosto di ideazione collettiva?
Nessuno dei due in verità. Penso che la progettazione sia un processo fatto di metodo, rigore, attenzione, cura del particolare ed attenzione per i dettagli. Un processo induttivo, mai deduttivo, lungo, laborioso, dall’andamento non lineare, fatto anche di ripensamenti ed autocritiche. Se poi questo è il risultato di un’ideazione singola o collettiva poco importa. Certo riflettendo sulla complessità e sulla varietà delle questioni che bisogna affrontare quando si intraprende un nuovo progetto, credo che l’apporto di figure specializzate ed altamente qualificate sia assolutamente indispensabile.
Quanto conta lo sguardo del cliente? Che tipo di relazione si instaura tra voi?
Più che di sguardo o relazione parlerei dell’importanza del programma nel rapporto con il cliente. Credo che un buon progetto nasca sempre a partire da un programma chiaro e definito, che però può anche essere corretto o aggiustato in corso d’opera grazie allo scambio delle idee e delle competenze di ciascuno. Non credo nel progetto di architettura assolutamente libero ed affidato esclusivamente alla creatività dell’architetto. Nella mia esperienza i progetti che ritengo più riusciti sono stati quelli in cui si è instaurato questo tipo di rapporto con il cliente.
Il rapporto tra nuovo-antico, di cui tanto si è discusso e dibattuto, rappresenta un tema più che attuale: in che modo viene riattualizzato dall’architetto contemporaneo e con quali spunti rispetto al panorama internazionale dove prevale l’immagine prodotta nell’epoca delle “meraviglie” concepite dalle “archistars”?
Io credo che in Italia si sia radicato un rapporto falsato con tutto ciò che viene definito antico o considerato come tale. Quella che potrebbe essere una grande risorsa, di inestimabile valore dal punto di vista progettuale, si è trasformata inesorabilmente in un enorme vincolo per noi progettisti. Al contrario in altri paesi, anche molto vicini a noi sia geograficamente che culturalmente come la Spagna o il Portogallo, la storia viene utilizzata come mera materia di progetto, elemento di ricchezza e valore aggiunto con il quale confrontarsi. Penso a progetti che ritengo esemplari al riguardo come il restauro del teatro di Sagunto di Giorgio Grassi, il Museo romano di Merida di Rafael Moneo. In Italia tutto ciò che è antico deve rimanere imbalsamato, deve essere conservato tout court e probabilmente per questo è destinato a deteriorarsi irrimediabilmente.
Generalmente trovo di pochissimo interesse l’architettura patinata, fotogenica, pronta per essere consumata, prodotta da quel gruppo ristretto di architetti che chiamano “archistar”. Devo anche dire però che tale definizione non rende giustizia a bravissimi architetti ed a progetti interessantissimi che a volte vi vengono frettolosamente inclusi da critici e redattori più che superficiali.
L’utilizzo dei materiali locali e di riciclo insieme alla ripresa della cultura artigianale, non ancora del tutto dimenticata, nell’epoca della globalizzazione come si adatta, o meglio attualizza, rispetto alle concezioni progettuali contemporanee?
Non parlerei più in termini di materiali locali o tradizionali, credo che la questione sia piuttosto la scelta dei materiali giusti e l’uso che se ne fa nelle varie occasioni che offre il progetto. I materiali, che siano locali, tradizionali o ultratecnologici hanno una loro verità e questa va rispettata non incappando in mistificazioni e caricature.
Sulla questione del riciclo penso che da tema di necessità, dovuto all’esigenza ormai irrinunciabile di ridurre i costi a causa della recessione in atto, si stia trasformando in una moda, in una tendenza del momento che francamente non giustifico appieno. La verità è che l’architetto è chiamato continuamente a fare delle scelte, cosa tenere e cosa no, a stabilire cosa ha valore e cosa no, e soprattutto in quale contesto.
Per quanto mi riguarda la cultura artigianale non ha mai subito un calo di interesse, anzi penso che un architetto per realizzare al meglio i propri progetti necessiti di artigiani veramente capaci. Io ho la fortuna di lavorare prevalentemente in una zona della Sicilia dove la tradizione artigianale è molto radicata e dove lavorano ancora molti bravi artigiani. Fabbri, falegnami, ma anche scalpellini, gente capace di lavorare la pietra praticamente a mani nude o con l’ausilio di strumenti che sembrano preistorici, dai quali abbiamo da imparare non tanto con l’intento di tramandare ai posteri tali preziose competenze (non penso spetti a noi architetti farlo), ma per contestualizzare ed attualizzare il loro sapere nel progetto di architettura contemporanea.
In fase di creazione/progettazione per te c’è una dicotomia tra estetica e funzionalità, o le cose camminano di pari passo?
Penso che la questione vera sia l’equilibrio tra le parti e la misura dell’intervento. Un architetto non dovrebbe mai perdere il gusto per sperimentare nuove vie e la curiosità di indagare nuovi ambiti, anche rimettendo in discussione aspetti funzionali, formali, strutturali che appaiono ormai consolidati e immodificabili.
Quale spazio ambiresti a progettare, un museo piuttosto che una chiesa o spazi aperti o altro, nella tua carriera? E con quale spirito? Quello purista di Le Corbusier o esperevviso di O. Neymar?
Ho avuto la possibilità di collaborare al progetto di Roberto Collovà per la riqualificazione del centro storico della città di Gela. Un progetto che ha avuto inizio nel 1994 con la partecipazione ad un concorso di progettazione ed il cui cantiere, della prima fase, ha avuto inizio nel 2004 e si è concluso nel 2012 (progetto pubblicato su Lotus International n. 151 e presentato alla XIV edizione della Biennale di Venezia nella mostra ”Un paesaggio contemporaneo”). Un progetto complesso ed articolato, realizzato in un contesto urbano delicatissimo e socialmente difficile, ultraconservatore e restio a qualunque processo di rinnovamento dello status quo. Un progetto che ha riguardato il ridisegno di gran parte degli spazi pubblici del centro storico della città e che ha trasformato radicalmente non solo la topografia urbana della città stessa ma ne ha modificato le modalità di fruizione da parte dei cittadini. Mi piacerebbe misurami in prima persona con queste tematiche e mettere a frutto quest’esperienza durata quasi 10 anni.