Massimo Prontera, 41 anni, vive e lavora a Taranto, nel suo studio mpA+d MASSIMO PRONTERA ARCHITETTURA+DESIGN. Ha conseguito la laurea a Milano, presso il Politecnico, per poi frequentare diversi corsi di formazione professionale post-universitaria e abilitazione sui temi della sicurezza, della prevenzione incendi, della progettazione a basso consumo energetico, della valutazione di impatto ambientale, oltre ad aver conseguito un master in Strategia di comunicazione efficace e PNL. Ha partecipato a diversi concorsi di idee e progettazione nazionali ed internazionali di architettura e design. Nel 2010 si è classificato IV al concorso internazionale di progettazione ANCI CREATIVE AWARD.
Che cosa significa vivere questa professione a Taranto? In generale pensi che la Puglia sia il posto giusto per il lavoro di un architetto come te?
Svolgere la professione di architetto a Taranto è sicuramente un esercizio molto complesso. Così come lo è nel resto della Puglia, ma attualmente anche in tutta Italia. Gli architetti, da tempo, non vivono una situazione professionale favorevole e la crisi economica che sta caratterizzando questi ultimi anni ha solo reso la vita professionale decisamente più complessa a quell'”esercito” che fa parte della numerosissima comunità degli architetti italiani.
Ci sono poche commesse davvero di qualità, un mercato dell’edilizia che è fermo da tempo, i progetti legati alla rigenerazione urbana che stentano a decollare e una bassa considerazione generale da parte dell’opinione pubblica circa l’alto valore dell’architettura legata alla qualità dei nostri spazi di vita e delle nostre città.
Hai un modello a cui fai riferimento? Ci indichi un architetto non più in vita e uno ancora in vita che ti piacciono particolarmente?
Un architetto che ho sempre ammirato molto per la propria visione della progettazione è sicuramente lo svedese Alvar Aalto. Semplicità delle linee in un rigore formale che non lasciava spazio al superfluo. Il suo insegnamento è sicuramente attualissimo. Tra gli architetti in vita indicherei senza dubbio, volendo restare tra le “archistar”, gli svizzeri Herzog & De Meuron. Se dovessi citare un italiano di cui attualmente seguo con molto interesse l’attività è Mario Cucinella.
Quale tuo progetto, ad oggi, ha rappresentato la sfida più ardua?
Ogni progetto è una sfida a sè, un incontro-scontro tra committenza e progettista, un processo arduo per arrivare a soluzioni che possano soddisfare entrambi. Ogni progetto è un arduo percorso ad ostacoli.
La sfida più interessante svolta fino ad ora è sicuramente un intervento di rigenerazione urbana di un’area completamente abbandonata nell’estrema periferia di Taranto. Il progetto, pensato e realizzato insieme all’associazione Legambiente e con il contributo dei cittadini residenti intorno all’area in questione, ha visto la totale trasformazione di uno spazio marginale e completamente degradato in un luogo per lo svago e il tempo libero dei bambini, con nuovo verde pubblico e giochi in materiale ecologico. Un risultato inimmaginabile solo in fase di progettazione ma che, con pochissime risorse private e la caparbietà di chi ci ha creduto da subito e ci ha lavorato in prima persona, è diventato realtà.
Quanto è importante l’attenzione per la cura dell’ambiente nel tuo lavoro di progettazione?
Importantissima. Ogni mio progetto parte dalla convinzione profonda che ci debba essere un saldo rapporto tra architettura e ambiente, tra costruito e natura. Sia per ciò che riguarda l’uso dei materiali che per la ricerca di quella relazione antica e per troppo tempo dimenticata con gli elementi naturali e del contesto.
Esiste secondo te ancora un approccio antropologico all’architettura, inteso come recupero di valori essenziali per la vita dell’uomo, visti gli effetti e i risultati dei progetti contemporanei nelle grandi metropoli asiatiche, così come in quelle arabe o, per restare nelle vicinanze, dell’Expò e di City Life di Milano?
Secondo me ancora sì. Spesso le architetture contemporanee, specie in contesti di nuova edificazione, possono lasciare negli occhi dell’osservatore un senso di profondo spaesamento. Altrettanto spesso ciò è legato anche ad una insufficiente conoscenza del linguaggio dell’architettura contemporanea ed è compito degli architetti promuovere tale conoscenza. E far comprendere anche che, nonostante le apparenze, City Life o Porta Nuova a Milano non sono la stessa cosa di Dubay o Shangai, non per le loro architetture quanto per i contesti in cui queste architetture si inseriscono.
In questi ultimi tempi i concetti di riuso, riconversione, adeguamento, assumono una rilevanza notevole, e non solo per gli interventi su edifici storici, dopo essere stato dimenticato nel recente passato, un momento in cui il consumo di suolo sembrava un fenomeno inarrestabile. Il rapporto tra nuovo e antico, di cui tanto si è discusso e dibattuto, rappresenta un tema più mai attuale: in che modo viene riattualizzato dall’architetto contemporaneo, e con quali spunti rispetto al panorama internazionale dove prevale l’immagine prodotta dall’epoca delle “meraviglie” concepite dalle “archistars”?
Il consumo di suolo, l’impermeabilizzazione del territorio, l’alterazione del paesaggio, la trasformazione dello skyline delle nostre città sono state una costante degli ultimi 40 anni. L’espansione delle nostre città e la conseguente creazione di periferie sterminate e prive di servizi ha portato ad un progressivo spopolamento dei centri storici e della città consolidata. Un fenomeno inarrestabile al quale solo da pochi anni si sta tentando di porre un freno attraverso politiche finalmente di ampio respiro che tentano di “riportare al centro” l’attenzione del dibattito sul recupero delle nostre città. Riuso e riconversione sono gli unici elementi che possono portare ad una reale rigenerazione delle nostre città, per troppo tempo cresciute su previsioni errate e fuorvianti. L’architetto contemporaneo ha davanti a sè una occasione storica per ridisegnare le nostre città con un linguaggio nuovo, che sappia finalmente cancellare le storture create negli ultimi 50 anni da una edificazione veloce e poco rispettosa dei valori dell’architettura. Sono certo che il dibattito in atto sul tema del riuso sia sufficientemente maturo anche per affrontare il tema della sostituzione edilizia, specie di quella degli anni 50 e 60 del secolo scorso che in modo così deprimente ha caratterizzato gran parte del tessuto urbano delle nostre città.
Parlando di nuove generazioni di architetti, cosa sarebbe consigliabile: apprendere il mestiere del costruire frequentando il cantiere e successivamente applicarsi al lavoro in studio, o viceversa?
E perchè non contemporaneamente? Non si diventa un buon architetto senza aver prima “rubato” il mestiere da un collega più esperto. Non si diventa un buon architetto senza aver vissuto intensamente il cantiere.