Ponte Morandi: una tragedia che impone riflessioni

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Il crollo del ponte Morandi a Genova alla vigilia di Ferragosto, con le sue 43 vittime e centinaia di feriti, ha posto l’intero Paese di fronte a un grande caso politico giudiziario, con l’inchiesta della magistratura di Genova che va avanti in parallelo alle intenzioni del governo di revocare la concessione ad Autostrade per l’Italia.

Un evento drammatico che certamente impone delle riflessioni anche sulla vita di grandi strutture costruite nei primi anni Sessanta e ancora oggi essenziali per la viabilità del nostro Paese. L’ingegneria moderna ha, infatti, il controllo dell’intero ciclo di vita delle sue opere e se tale ciclo si risolve in una catastrofe deve fare i conti con il proprio fallimento.

Il caso di Genova, pur essendo il più grave, non è purtroppo isolato. Solo negli ultimi due anni sono, infatti, quattro i cavalcavia crollati.

Sicuramente sono numerose le variabili che possono determinare il collasso di una struttura: tecniche di costruzione, utilizzo, manutenzione, politiche strategiche di viabilità, ma anche eventi, atmosferici e non, imprevedibili.

Bisogna senza dubbio distinguere un crollo che avviene dopo 20, 30 anni dalla costruzione, da un crollo che avviene durante la costruzione stessa o poco dopo. In quest’ultimo caso, infatti, è molto probabile che la causa sia un errore progettuale o un problema legato alla geotecnica, come nel caso del crollo del viadotto Himera sull’autostrada A19 che collega Palermo e Catania, avvenuto tre anni fa.

Quando invece un ponte ha una lunga vita alle spalle le problematiche più frequenti che possono determinarne il collasso sono l’incremento dei carichi e il degrado. Una delle due è verosimilmente stata determinante per il crollo del ponte Morandi.
Nel ponte Morandi, probabilmente, c’erano fessure e distacchi che hanno incrementato i fenomeni ossidativi – si legge in una ricostruzione pubblicata da ilSole24ore – E in quella situazione è molto difficile intervenire, perché andrebbe rimosso tutto il calcestruzzo per sostituire i cavi.”

La questione del degrado delle strutture non è ovviamente solo italiana: gli Stati Uniti, ad esempio, hanno un patrimonio di 600mila ponti, contro i 46mila italiani e in 32 anni hanno dovuto assistere a 1062 collassi.

Il problema non è certamente il calcestruzzo, che è invece il materiale che garantisce la migliore durata di queste strutture, naturalmente tenendo conto di tutte le scoperte ad esso legate dal 1960 ad oggi e le precauzioni – ben note e obbligate – da considerare.

Dal 1980 a oggi il calcestruzzo ha quadruplicato la sua capacità resistente – spiega a ilSole24ore Marco Di Prisco, docente di Progetto di strutture al Politecnico di Milano – oggi, in laboratorio, siamo in grado di creare calcestruzzi a 300 megapascal in compressione, quando l’acciaio normale da profili resiste nell’armamento 235. Chiaramente non si elimina la dissimmetria: cioè il materiale calcestruzzo resiste sempre tanto a compressione e poco a trazione. Per questo, insieme a un collega di Brescia, ho introdotto nel codice modello e anche nella normativa nazionale, il concetto di calcestruzzo fibro-rinforzato, cioè arricchito da fibre di varia natura, per dare al calcestruzzo la capacità di resistere, di mantenere il valore di sforzo di trazione vicino al megapascal, mantenendolo per un certo valore di apertura di fessure, in modo tale che non ci sia un crollo repentino ma che ci sia una certa duttilità.”

Persino lo stesso Morandi, in un rapporto scritto dopo 12 anni dall’inaugurazione del ponte, dimostra come al tempo della progettazione molte nozioni sulla durabilità del ponte non fossero conosciute.

Nel rapporto, come pubblica Ingenio, si legge:”Alcuni decenni trascorsi a progettare, dirigere e supervisionare le costruzioni di ponti in cemento armato mi autorizzano ad esprimermi opinioni sulla loro durata e sulla frequenza di ripetuti inconvenienti che possono verificarsi nel corso del tempo. […]
Come è noto, un ponte in cemento armato, a parte il possibili problemi dovuti a specifiche deficienze dello stato, è soggetto a lento deterioramento a causa di:

  • l’effetto dei carichi mobili e dell’azione ambientale, soprattutto sulla pavimentazione, sulle strutture portanti, sugli intarsi e sulle finiture,
  • gli effetti chimici e meccanici dovuti alle azioni metereologiche sul cemento e anche sul rinforzo.”

In dodici anni molti progressi erano già stati fatti e, comunque, il deterioramento per cause di “carichi mobili” era stato sottostimato e, anche per questo, da diversi anni si valutava la realizzazione della c.d. “Gronda di Ponente”, necessaria per agevolare il traffico nella zona dove oggi è accaduta la tragedia.

È il 2012 infatti, quando Giovanni Calvini, allora presidente di Confindustria locale a fine mandato, si infuriava con chi – fra politici e amministratori – si opponeva alla realizzazione della Gronda – e tra questi il genovano Beppe Grillo ed i consiglieri del M5S – annunciando pubblicamente e profeticamente che “tra dieci anni il Ponte Morandi crollerà”.

Adesso – al netto di tutte le disquisizioni tecniche, le responsabilità da accertare e le soluzioni per tamponare una viabilità dell’intero territorio da ripensare – tra le domande da porsi vi è anche: cosa fare di una struttura come quella del ponte Morandi quando la sua vita prevista finisce?

C’è poi la questione delle criticità del regime di concessione e del rapporto tra concessionario privato e amministrazione pubblica, che la vicenda mette a nudo e che non riguarda solo le autostrade.
“Concessioni e in house restano in molti settori chiave, dai trasporti all’energia, dalle infrastrutture ai rifiuti all’acqua, regimi giuridici ed economici opachi in cui la concorrenza non entra, – scrive ilSole24ore – le gestioni di beni e servizi pubblici restano al riparo di qualunque valutazione sull’efficienza economica, il rapporto pubblico-privato è privo di regole certe e stabili, il tornaconto per i cittadini difficilmente misurabile.” Ammesso che una gestione diretta dello Stato sia sinonimo di garanzia sulle necessarie manutenzioni, ma a giudicare dallo stato frequente delle strade “statali”, appunto, e provinciali, non sembrerebbe una risoluzione reale della problematica.

Più che altro chi può e deve interpretare il ruolo di concedente e interpretare e applicare i patti con il concessionario e sopratutto vigilare che si rispettino, ad esempio per quanto concerne l’aspetto della manutenzione in questo caso? Forse bisognerebbe assoggettare la concessione a una regolazione tecnica più forte. E, parimenti, l’Italia non si può permettere più di rimanere al palo, in tema di costruzione e rinnovo delle infrastrutture, vincolata persino al giudizio e all’incompetenza del singolo amministratore locale, affascinato dalla presa che ciò può determinare in termini di consenso.

Le domande e i dubbi sono tanti e di non facile risoluzione, ma è doveroso che tutti gli enti coinvolti si assumano la responsabilità di fronteggiarli al più presto, affinché la storia non si ripeta.

 

Foto credit: Michele Ferraris

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